scritto da Claudio Barbanera

Nella vita di un ragazzino, l'arrivo di un cane è sempre un grande evento. Anche se avevo da pochi mesi dovuto lasciare il mio amatissimo Bobi, i giorni che trascorsero tra la decisione di prendere un altro cane e il suo arrivo furono pieni di febbrile aspettativa. Poi una sera mio padre tornò tutto contento e annunciò che sarebbe arrivato l'indomani dal paese vicino, dono di un macchinista suo amico e cacciatore.
Mia madre s'informò sull'età, temendo che fosse ancora un topolino da svezzare, ma saltò fuori che questo era già "grande" (9 mesi), aveva un nome, Billo, che era uno spinone e che il suo amico glielo cedeva perché come cacciatore era una frana. Buono, dolcissimo e obbediente, aveva un piccolo difetto: pur impavido nel gettarsi in qualsiasi specchio d'acqua, ruscello o fiume che fosse, raggiungeva la preda, gli dava una bella annusata…e se ne tornava allegramente a riva. In famiglia il "difetto" non importava a nessuno, solo che ne io ne mia madre sapevamo come fosse fatto uno spinone. Quando lo vidi il giorno dopo, il mio primo pensiero fu: "Madonna, quanto è grosso!"
Perché Billo "era" grosso. Nei miei ricordi, pur distorti dall'ingrandimento tipico delle cose viste con gli occhi di un bambino, Billo mi arrivava col testone sopra il gomito; un cagnone enorme e irsuto, dall'aria un po' preoccupante subito smentita dall'imbarazzante dolcezza dello sguardo e dalla festosità della coda. Dubito molto che fosse di razza pura: non so se a quei tempi ci fossero in Italia gli Irish Wolfhound, ma sembrava imparentato con uno di quegli elefanti. Mia madre, al vederlo, sulle prime sbarrò gli occhi, poi fu presa da un irrefrenabile accesso di riso, di cui non riuscimmo a capire la ragione finché non ci mostrò quel che teneva in mano…la ciotolina di latta dove era solito mangiare Bobi. Era pomeriggio, la povera bestia non aveva mangiato dal giorno prima, e mia madre mise filosoficamente a cuocere il primo chilo di pasta.
Dopo poche ore di permanenza in casa Billo aveva stabilito la sua personale gerarchia.
Per fare un paragone militare, papà e mamma erano i generali, l'olimpo del comando, da ubbidire e da temere, mentre io ero il suo sergente e mia sorella…la popolazione civile. Da buon soldato, io ero il suo punto di riferimento: quando fischiano le pallottole, non ti rivolgi ai generali, ma al tuo sergente; e il rancio…lo chiedi forse al generale?
Quanto a mia sorella, il compito di ogni buon soldato è quello di proteggere i civili, per cui i suoi punti di stazionamento obbligatori divennero ai piedi del seggiolone o della culla della bambina. Fin dalla prima notte non ne volle sapere di dormire nella mia stanza e si sdraiò sotto la culla di mia sorella. Mia madre fece buon viso e, verificata l'assenza di pulci, spianò una vecchia coperta nel punto che sarebbe stato il luogo dei suoi sonni per il successivo anno e mezzo. Si era in tarda primavera, e mia madre lasciava spesso mia sorella ai bordi del prato sotto la finestra della cucina, su una copertina e sotto al mia sorveglianza. Io in realtà ero troppo occupato a giocare a pallone o a tamburello con i miei compagni, e così Billo si assunse il compito di guardiano full time.
Si piazzava immobile vicino alla bambina, disposto a tutto: a subire le sevizie di mia sorella, che prese subito confidenza col bestione più grosso di lei, e a tenere lontani gli indesiderati. Le sevizie erano le più ignobili; una volta fu un compagno ad avvisarmi: trovai Billo a bocca spalancata che mugolava di dolore mentre mia sorella tentava con entrambe le manine di estirpargli la lingua. Le strappai via le mani, la piccola peste si mise a piangere e Billo si ritenne in dovere di consolarla con grandi leccate… Con gli estranei la faccenda fu un poco più seria; Billo accettò via via che vicini ed amici si avvicinassero alla bambina, ma rimase inflessibile con chi non conosceva.
Ne fece le spese uno sconosciuto capotreno romano, che passando di lì si ritenne in dovere di fermarsi a fare ghirghiri alla bimba, nonostante i ringhi minacciosi di Billo. Rimediò un robusto e penetrante morso sul polso, con un bel po' di buchi e di sangue; per fortuna fu abbastanza sportivo da ammettere la sua stupidità e finì col commentare ridendo che con una simile guardia del corpo difficilmente la ragazza avrebbe trovato marito… Comunque Billo mi fece conoscere una nuova dimensione del rapporto con un cane; divenne immediatamente un compagno inseparabile di giochi, di gite, di malfatture, sempre pronto a tutto pur di compiacermi e di stare con me, facendo sfoggio delle sue straordinarie doti fisiche. Nutrito in abbondanza, restituiva una energia inesauribile, una forza elefantina e doti acquatiche da delfino; era l'unico cane conosciuto del vicinato che osasse attraversare a nuoto il fiume Rapido, che si chiamava realmente così per essere costituito da acque gelide, limpidissime, profonde e veloci. Quello che per i soldati dell'Ottava Armata era stato durante la battaglia di Cassino un ostacolo quasi insormontabile, per lui era una questione di cinque minuti di zampate possenti, e non si peritava di attraversarlo in diagonale controcorrente, se con questo riusciva a prendere terra più vicino a me. Un paio di anni fa, nella piana di Castelluccio, ho visto dei Malamute praticare il traino di tricicli e biciclette (non ricordo il nome specifico di questa disciplina), e mi è tornato in mente che quello sport ce lo eravamo inventato io e Billo quasi cinquant'anni prima. Preceduto da una serie infinita di cadute, alla fine Billo aveva imparato a trainare la bicicletta con me sopra, senza problemi, e senza gli ordini speciali che si danno ai Malamute per farli svoltare; semplicemente, in prossimità di un bivio o di una traversa, smetteva di tirare e si portava a fianco della bici in attesa che io decidessi da che parte andare. Dopodiché riprendeva volonterosamente il traino. L'unico inconveniente era che spesso, individuata la direzione da me prescelta, tendeva a tagliare gli angoli…per fortuna i fossi al bordo delle strade di campagna erano poco profondi e morbidi d'erba.
Non sempre aveva cognizione della sua forza; le rare volte in cui lo tenevo al guinzaglio, il che accadeva solamente quando dovevamo rientrare a casa, per evitare che si lanciasse in qualche fosso, dava strattoni terribili, facendomi fare più di un volo per terra. Una volta, con uno di questi strattoni mi fece cadere in un canale di cemento per irrigazione, per fortuna vuoto. Lui sul bordo a guardarmi sorpreso, e io nel fosso con ancora il guinzaglio in mano. Gli urlai un incavolatissimo "Tira, cretino!", e siccome "tira" era l'ordine della bicicletta, lui tirò…strappandomi fuori dal canale come un turacciolo dalla bottiglia. Pur passando i suoi giorni con me, aveva le giornate "speciali", quelle in cui stava con mio padre all'officina delle locomotive. Si aggirava beato fra bielle, ruote motrici, polvere di carbone e untume, conciandosi da paura, per cui prima di tornare a casa il bagno nel ruscello vicino all'officina era d'obbligo; arrivava umidiccio ma sufficientemente pulito.
Quelle giornate non erano speciali solo perché stava con mio padre, ma anche per le terribili scorpacciate che faceva.
Cominciava col presentarsi nella sala macchinisti, rimediando i resti delle merende; poi a mezzogiorno veniva a casa con mio padre e spazzolava la sua ciotola d'ordinanza. Tornava in officina in tempo per mangiare gli avanzi dei pranzi che molti operai consumavano al sacco. Infine, verso le due, arrivava l'inserviente della mensa FS che gli presentava un secchio (giuro, un secchio!) con gli avanzi di cucina della medesima. A quel punto si sdraiava al sole davanti all'ufficio di mio padre e non dava più segni di vita per due o tre ore.
Mio padre sosteneva che mangiare tre volte al giorno non era giusto, mia madre diceva che mangiava una sola volta, dalla mattina alla sera, e Billo non sapendo niente di queste cose stava benissimo, salvo cacche giganti e il fatto che era come stipare di esplosivo fino all'ultimo millimetro cubo dell'involucro di una bomba. E infatti quella bomba ogni tanto faceva certi tuoni… I giorni neri di Billo giunsero quando mio zio venne da noi per una quindicina di giorni per riposarsi e lavorare al suo libro.
Zio Aguinaldo (si chiamava così!) rappresentava la cultura di famiglia. Il maggiore di cinque fratelli, si era laureato in lettere a soli 22 anni, e nonostante i suoi meriti, essendo un tenace antifascista, era stato relegato al ruolo di professorucolo di paese fino alla fine della guerra. Cambiato il vento politico, fece una carriera rapidissima, e dopo essere stato il temutissimo preside di un paio dei più prestigiosi licei classici della capitale venne cooptato dal Ministero della P.I. come ispettore. Nel contempo produceva terribili mattoni di commento e traduzione di lirici greci e latini, che ritengo fossero assolutamente illeggibili se non dagli addetti ai lavori. Proprio queste attività, che prendeva molto sul serio, lo portarono sull'orlo di un esaurimento nervoso, e venne a riposarsi da noi che, agli effetti pratici, abitavamo in campagna. C'erano due problemi gravi: il primo, che ero il suo nipote preferito; il secondo, era allergico al pelo di cane. Billo venne relegato in officina, ed io passai due o tre giorni terribili a visitare le rovine romane e medievali che a Cassino abbondano. Niente che non avessi già visto, ma venni introdotto alle meraviglie dell"opus reticulatus" delle costruzioni romane e alla traduzione della più insignificante delle scritte latine che mio zio trovava a Cassino e nella semidistrutta Abbazia, comprese furibonde filippiche contro la maccheronicità del latino curiale.
Poi per fortuna si immerse nella stesura del suo nuovo libro e venni lasciato in pace. Per Billo le cose sulle prime andarono bene, in officina stava benissimo, gli era stata approntata una cuccia hi tech in compensato pesante a doppia parete con intercapedine in tessuto di amianto (allora si ignorava quanto fosse cancerogeno), tetto mobile e pavimento sopraelevato, mangiava a crepapelle e di giorno era sempre in giro con me. La notte la passava tranquillo, la cuccia era vicina alla sala macchinisti, sempre aperta e frequentata, e la compagnia non gli mancava; capitava spesso che qualcuno gli sganciasse la catena e lui passava la notte sui vecchi divani di quella sala. I guai cominciarono il sabato, che allora era lavorativo solo la mattina. Io ero relegato alle public relations con lo zio, e lui rimase solo. Alle sei del pomeriggio spezzò la catena con cui era legato e si presentò alla porta di casa. Venne riagguantato da mio padre e riportato in officina. La catena venne sostituita. Alle cinque e mezzo del mattino squillò il telefono di servizio. Il CapoDeposito di turno avvisò mio padre che Billo, catena e cuccia erano incastrati in un binarietto morto del deposito. Billo aveva cercato di raggiungere casa trascinando l'intera cuccia, ma dopo circa duecento metri questa si era incastrata su una rotaia. Seguii mio padre in officina, la cuccia fu rimessa a posto con l'aiuto dei manovratori presenti e mio padre rimase li a grattarsi la testa cercando di capire come passare quella domenica. Alla fine mi mandò a prendere la bicicletta, mi dette un po' di soldi e disse che dovevo stare fuori dai piedi tutta la domenica: allo zio avrebbe raccontato che ero in "uscita" con gli Scout della Parrocchia (mai vista ne frequentata). Facemmo colazione al bar della stazione, una di quelle cose che restano impresse nella mente di un ragazzino: la macchina del caffè che sbuffava vapore, caffelatte fumante, brioches calde e fragranti, tre delle quali, del giorno prima, a Billo e poi…via per le strade di campagna, attraversando il paese semiaddormentato. Girammo per tutta la mattinata, furbescamente a mezzogiorno tornai a mangiare alla mensa FS, dove io e il cane venimmo abboffati con un "paga poi papà" e investii tutto il denaro ricevuto in giornaletti, che usai per passare il pomeriggio sotto una quercia in un boschetto fuori del paese. Infine una lunghissima trottata avanti e indietro dal paese vicino trainando me e la bici ebbe ragione delle energie di Billo, che riportato in officina stramazzò finalmente domo davanti alla cuccia. Così potei tornare a casa, soddisfattissimo e con una nutrita serqua di bugie sulla giornata da raccontare allo zio. La settimana successiva passò senza problemi, feci lunghe passeggiate con lo zio, autentiche lezioni all'aria aperta. Lui era un ottimo insegnante, io un ragazzino curioso e appassionato alla storia: credo di dovere a lui le mie radicate e comprovate convinzioni sull'imperialismo, romano nella fattispecie, ma del tutto riportabili ai giorni nostri. Ma venne di nuovo il sabato notte. Stavolta il telefono squillò alle quattro, ed era il capo manovratore: Billo, con catena e parete frontale della cuccia (che nel frattempo era stata imbullonata al terreno) era incastrato fra i binari dello scalo merci, e gli operatori se lo erano ritrovati davanti durante una manovra notturna. Stavolta era prestissimo, e anche se ero munito di bicicletta e di orologio (d'oro, regalo della comunione) non era certo il caso di mettersi in giro. Così la mia nuova "uscita Scout" cominciò chiusi nell'ufficio di mio padre, a dormire sul vecchio divano di pelle ereditato da chissà quale sala di aspetto di prima classe. Alle sette, fatta colazione e con ancora più soldi in tasca, partimmo alla ventura. Stavolta raggiunsi Venafro (15 Km.), mangiai in una osteria del paese, dove furono prodighi di pastasciutta avanzata anche con Billo, e mi andai a piazzare sotto la solita quercia con il consueto armamentario di giornaletti. C'è da dire che può sembrare strano che un ragazzino di 11 anni se ne andasse in giro a vagabondare senza meta. Bisogna però ricordare che a quei tempi la cosiddetta microcriminalità era sconosciuta, la gente, almeno in quella zona, era poverissima ma rispettosa delle leggi, i nostri attuali tempi bui erano ancora ben lontani. Purtuttavia…A Venafro avevo visto un po' di ragazzotti, a piedi o con sgangherate bici, guardare con cupidigia la mia Bianchi Supersport, ma non ci avevo assolutamente fatto caso.
Con la notte passata parzialmente in bianco, dopo un po' mi addormentai sui miei giornaletti. Venni risvegliato dal ringhio cupo di Billo vicino a me e, aperti gli occhi, vidi due di quei ragazzi avvicinarsi alla bici appoggiata ad un altro albero…e forse anche al mio un po' troppo vistoso orologio della comunione. Billo risolse il problema in un attimo: scattò come una furia, si frappose fra i ragazzi e la bici e dette luogo ad una clamorosa esibizione alla Alien di tutta la sua dentatura, ringhiando e abbaiando rabbioso. I due saltarono sulle loro bici e volarono via sulla stradina sterrata… Abbastanza spaventato, tornai in paese e in officina e trascorsi nell'ufficio di mio padre (che nel frattempo aveva riparato la cuccia) le ore che restavano, poi mi presentai alle sei in stazione per salutare lo zio che tornava finalmente a Roma. Non dissi niente a mio padre dell'avventura occorsami, ma la confessai a mia madre, che quella sera, riassettando la cucina, lasciò cadere sbadatamente davanti a Billo il grosso pezzo di lesso del brodo del pranzo…per abbracciarlo poi quando lo ebbe sbafato in tre morsi. Da quella esperienza io ricavai un sacco di nozioni di storia romana e qualcuna di latino e una discreta sommetta in regalo, lo zio era generoso e ben fornito.
Ne ricavai anche una accresciuta fiducia da parte dei miei genitori nel fatto che me la sapessi cavare con assennatezza, il che mi fu molto utile, anche se non sempre motivato, per tutta la mia giovinezza. Billo pure crebbe nella considerazione della famiglia; mia madre in particolare si convinse che aveva testa e muscoli bastanti per tenere i suoi figli fuori dai guai, e che comunque si era guadagnato sul campo il diritto a stare sempre con noi. Venne l'autunno, e mio padre si lasciò convincere ad andare a caccia, visto che aveva il cane, e comprò una vecchia doppietta usata. Di licenza di caccia non se ne parlava, considerando che chi lo aveva convinto era il maresciallo comandante del locale Posto Polfer… Billo si dimostrò un ottimo cane da caccia, insieme a me. La cosa funzionava così: lui vedeva cadere la preda, partiva di gran carriera alla cerca, trovava la preda, io trovavo lui e riportavo la preda.
Ho usato con troppa libertà la parola preda; in realtà la caccia si risolveva in lunghissime camminate sui monti senza vedere un solo animale. Infatti i monti e i campi intorno a Cassino erano completamente deserti, non per colpa della caccia, ma…dei caccia. Ossia dei caccia alleati, che insieme a tutto l'armamentario bellico dell'Ottava Armata e delle truppe naziste aveva fatto di quei monti un vero deserto, di persone e animali. I piccoli uccelli erano tornati, ma per il resto era il vuoto assoluto. Poi una volta Billo scovò una lepre, l'inseguì all'impazzata e per puro caso riuscì a portarla a tiro della doppietta del maresciallo. Allora scoprii che la tanto agognata e mai vista lepre altro non era che un coniglio, o perlomeno gli assomigliava, e siccome amavo disperatamente i conigli (vivi o cotti) piantai una grana terribile. Mio padre mi riportò a casa piangente e furibondo, rivendette la doppietta e tornò al suo più tranquillo hobby dei lavori di falegnameria. Alla fine dell'inverno e della prima media accadde l'inevitabile: mio padre fu promosso e trasferito. A quei tempi il sud d'Italia era scarsissimo di personale ferroviario, per quanto oggi questo possa sembrare strano, e quindi su tutti pendeva la spada di Damocle di un paio d'anni di servizio al Sud. A mio padre andò più che bene, dato che venne assegnato all'officina di Catania, una grossa città: a molti toccavano posti sperduti e magari con la malaria. Dopo un paio di mesi di ambientamento passati in trasferta, venne il momento di trasferirsi, e Billo non poteva venire con noi, perché allora si pensava di non poter tenere un cane così grosso in città e in appartamento. Per fortuna il sostituto di mio padre venne a vedere l'appartamento di Cassino; siccome era molto grande, e quello di Catania più piccolo, decise di ereditare tutto: dirigenza dell'officina, appartamento, mobili costruiti da mio padre per la camera della bambina…e cane, di cui lui e la sua bambina di quattro anni si erano subito innamorati. Devo dire che, fatti i debiti scongiuri, mi sono toccati in sorte sempre cani longevi: le ultime notizie di Billo le ebbi quando aveva quindici anni e stava ancora ottimamente.
Per qualche anno, a Catania, non si parlò di cani; poi venne Lazzarella, che sarebbe stata, per tutta la sua vita, la compagna della mia giovinezza.