Oltre a raccontare le origini dell’omeopatia ed a spiegare
come il sottoscritto ne è venuto per la prima volta a diretta conoscenza, nel
precedente articolo ho lanciato alcuni sassi nello stagno.
Il
primo di questi era relativo all’evidente efficacia di questo tipo di medicina,
ma da scettico di natura capisco benissimo quanto sia difficile, per chi è
totalmente digiuno della materia, accettare passivamente queste mie parole.
Non
ho la presunzione di convincere nessuno del fatto che l’omeopatia funziona, ma mi piacerebbe insinuare
almeno il germe del dubbio in quanti, per fidarsi di una terapia, hanno finora
avuto bisogno di un preciso meccanismo d’azione.
L’unica
maniera di convincersene è…provare, esattamente come ho fatto io.
Il
secondo sasso riguardava l’assoluta necessità di una diagnosi clinica
estremamente accurata, formulata prima di pensare a qualunque terapia.
Cominciamo
da qui.
Parlando
di omeopatia con amici, conoscenti, o comunque con persone non ferrate sull’argomento,
mi capita spesso di sentire pareri del tutto errati.
E’
purtroppo radicato nella mentalità della maggior parte della gente il fatto che
la prescrizione omeopatica sia basata solo ed unicamente sul rilievo di un
sintomo.
Se
fosse vero, una visita omeopatica si potrebbe fare anche per telefono.
Ricordo
invece che le prime due cose che mi insegnarono al corso al quale mi iscrissi
furono che:
a)
l’omeopatia non può prescindere dalla formulazione
di una diagnosi clinica;
b)
non è assolutamente
la cura di qualsiasi malattia.
Sapendo
questo e mettendolo in pratica, avremo la certezza di poter lavorare davvero
“in scienza e coscienza”, scegliendo di volta in volta la terapia che più delle
altre, secondo noi, porterà giovamento al nostro paziente.
Mi
piace infatti considerare le varie materie mediche (i volumi che racchiudono le
descrizioni dei rimedi omeopatici) alla stregua di un secondo Informatore
Farmaceutico.
Ritengo
che la differenza fra un medico esperto in omeopatia ed uno che la rifiuta a
priori sia che il primo può scegliere fra un maggior numero di alternative
terapeutiche rispetto al secondo.
Ma
in pratica, come fa il proprietario di un cane a decidere di far beneficiare di
queste maggiori possibilità il suo amico peloso?
Semplice:
va da un veterinario esperto di omeopatia.
Ma
questa non può essere altro che una battuta, perché il problema non è
assolutamente di facile soluzione.
In
Italia, infatti, pur essendo stata legalmente riconosciuta come “atto medico”,
la pratica omeopatica non è ancora annoverata fra le possibili
specializzazioni: in campo veterinario, esattamente come in campo umano, la
prescrizione di un medicinale omeopatico è assolutamente libera, come libera è
la sua vendita in farmacia.
Partendo
da questi presupposti è facile intuire la confusione nella quale si trova chi
ricerca esperti del settore, i quali, al di là della comunicazione strettamente
verbale fra professionista e cliente, non possono legalmente far nulla per
informare la clientela riguardo alle pratiche terapeutiche che adottano.
Il
tutto si riduce al passaparola, oppure al consiglio di quei pochi veterinari
che, pur non essendo esperti in questo
campo, ne rispettano la dignità ed indirizzano verso un collega che pratica
questa disciplina i clienti che manifestano questo desiderio.
Nel
contempo, la libera vendita di questi farmaci viene incentivata da rotocalchi
che titolano: “Curatevi con l’omeopatia, ecco la cura per il mal di pancia,
l’artrosi ed il raffreddore”.
Va
da sé che, in una disciplina così complicata e così strettamente legata al
singolo individuo, è piuttosto difficile che una terapia letta sulle pagine di
un giornale abbia una qualche efficacia: e fra queste esperienze negative i
detrattori dell’omeopatia vanno chiaramente a nozze.
Per
questo motivo eviterò, in questi miei articoli, di citare diluizioni e
posologia dei rimedi omeopatici che nominerò: al di là di alcuni collaudati
protocolli, da adattare sempre e comunque al soggetto da trattare, un farmaco
omeopatico con grande efficacia, per esempio, sulla tonsillite del mio cane,
difficilmente avrà la medesima azione terapeutica sulla medesima patologia a
carico di un altro cane.
Ma
vediamo di fare un po’ di chiarezza.
Come
si arriva ad una prescrizione?
Abbiamo
già detto e ripetuto che innanzitutto bisogna visitare l’animale; a questo
punto, in base ai dati raccolti e quindi in seguito alla formulazione di una
diagnosi clinica, si decide se il caso va trattato in maniera convenzionale
oppure con l’omeopatia.
Se
il veterinario sceglie quest’ultima strada, ora e solo ora può cominciare la
visita omeopatica. Questa è volta alla comprensione della natura dell’animale
ed annovera, fra le altre, anche domande alle quali molti proprietari faticano
a dare una risposta, semplicemente perché non sono preparati a darla.
Il
limite dell’omeopatia veterinaria è proprio qui: c’è un filtro fra il medico ed
il paziente, rappresentato dal proprietario.
Ed
è il filtro stesso, spesso inconsapevolmente influenzato dalle proprie
opinioni, a dover fornire all’omeopata le indicazioni che porteranno ad una
tipizzazione dell’animale.
Faccio
un esempio pratico: alcuni rimedi omeopatici hanno nella loro patogenesi
(ovvero: causano, se somministrati a dosi ponderali) determinati stati d’animo.
Uno
di questi è il gradire o meno la pioggia.
Se
un omeopata umano chiede ad un suo paziente se ami uscire nelle giornate di
pioggia, riceverà una risposta il più delle volte chiara. Per un omeopata
veterinario non è sempre così, perché il “sì” od il “no” verranno probabilmente
influenzati dal gradimento che il proprietario del cane (e non il cane, che è
il paziente!) ha riguardo alle giornate piovose.
Capirete
che, salvo il caso di trovarsi di fronte ad un proprietario che a sua volta
ricorre ad un omeopata per i suoi malanni, spesso il cosiddetto “interrogatorio
omeopatico” è per noi veterinari cosa assai ardua.
Ammesso
e non concesso di aver individuato la tipologia dell’animale, a questo punto il
perfetto veterinario omeopata ha già in mente quali rimedi sono indicati per il
suo paziente; fra questi sceglie quello che più si avvicina ai sintomi fisici e
psichici che l’animale presenta, decide la “potenza”, ovvero la diluizione del
rimedio, e ne stabilisce la posologia.
Ecco,
oltre a non essere il perfetto veterinario omeopata, io sarò magari anche un
pessimista…ma solo di rado mi capita di trovarmi di fronte a casi tanto
semplici e logici da avere l’immediata ispirazione per la prescrizione di un
solo rimedio.
Mi
spiego meglio: l’omeopatia classica prevede l’individuazione e quindi la
prescrizione di un solo rimedio alla volta, seguita dall’osservazione delle
reazioni del paziente alla terapia.
Se
questo è già molto difficile in medicina umana, risulta quasi impossibile in
veterinaria, perché il livello di approfondimento dell’”interrogatorio” è per
forza di cose decisamente inferiore, soprattutto dal lato mentale.
E’
infatti piuttosto difficile riuscire a capire se un labrador sogna barboncine
nude o giganteschi piatti di tagliatelle.
E’
uso corrente dire che l’omeopatia è unicista per definizione, pluralista per
necessità e complessista per disperazione.
Non
è così in maniera assoluta, ma nella comune pratica clinica capita solo di rado
il caso del perfetto omeopata appena descritto.
La
maggior parte delle volte la scelta cadrà su una prescrizione pluralista, che
comprende generalmente un rimedio “di fondo”, volto a riequilibrare il
“terreno” dell’animale, unito ad un secondo, scelto fra quelli che rispecchiano
la sintomatologia presentata dal paziente.
Le
prescrizioni complessiste, più frequentemente usate nel trattamento delle
patologie acute, non sono altro che mix di rimedi a diluizione variabile, uniti
fra loro per determinare una sorta di sinergismo d’azione. Vengono scelte in
base alla sintomatologia e personalmente le considero valide solo quando non ci
sono il tempo o l’occasione per un approfondimento del caso.
Un
consiglio per quanti decideranno un giorno di portare da un veterinario
omeopata il loro cane: siate pronti a tutto!
Le
domande che vengono poste non sono mai le stesse e molto spesso potranno
risultare strane, a volte quasi assurde, alle orecchie di chi è stato finora
abituato al veder seguire da una ricetta una visita clinica.
Non è
così. Bisogna armarsi di santa pazienza e cercare di aiutare il professionista
nel suo tentativo di capire fino in fondo “che tipo è” il vostro
cane…possibilmente senza chiamare il reparto psichiatrico prima che questi
abbia concluso la visita.