Partita di Caccia
Era una primavera turbolenta, quell'anno, in Sicilia. Il tempo non ne voleva sapere di stabilizzarsi, piovaschi e temporali si succedevano a tempeste di vento e per noi tre studenti del secondo anno di Geologia era il tempo ideale per restare in casa e studiare.
L'esame, il maledetto esame di Micropaleontologia, si approssimava e il tempaccio ci teneva fortunatamente lontani dalle dolcezze della primavera siciliana.
Quella mattina però, qualcosa era cambiato: il cielo era azzurro e al posto del vento forte e freddo dei giorni precedenti spirava una brezza leggera e tiepida, che anche nel vecchio palazzo nobiliare al centro di Catania portava odori di fiori ed erbe nuove.
Ci eravamo riuniti, io e Giacomo, a casa del nostro abituale ospite e compagno d'università, Lorenzo detto "u baruneddu" perché era davvero barone, di illustre schiatta, con tanto di stemma, palazzo omonimo e feudo. Studiare a casa sua era piacevole, in uno studio vecchio di un paio di secoli, silenzioso e pieno di odori di agiatezza, antico legno, vecchio cuoio e libri preziosi.
Ma quella mattina non funzionava, non si riusciva proprio a concentrarsi su quella miriade di microscopiche lumachine che avrebbero dovuto dirci l'età dello strato di terreno in cui giacevano.
Se ne rese conto anche il Barone padre, che venne a salutarci e ci trovò in pose più o meno stravaccate tra un divano e una poltrona; ci aveva visto darci dentro parecchio, nelle settimane precedenti, e capì che avevamo bisogno di relax, almeno una giornata fuori dall'ordinario.
Ci suggerì quindi di prendere la macchina e di andare a trascorrere la giornata nella sua proprietà in campagna.
Con noi usava accuratamente il vocabolo "proprietà", sapendo che il figlio si incavolava a morte a sentire la parola "feudo"; in realtà era questa la dizione più corretta per una "proprietà" di oltre 1500 ettari, che produceva ogni ben di Dio e che consentiva al barone di fare un beato nulla se non "amministrare" le terre stesse.
Un paio di telefonate avvisarono i genitori miei e di Giacomo, dopodiché passammo a salutare la baronessa e ci avviammo. Il saluto alla baronessa era qualcosa di dovuto e al tempo stesso voluto; dovuto perché la signora era molto attaccata alle vecchie usanze ed era inoltre instancabile rifornitrice, tramite le cameriera, di dolci, bibite e tramezzini vari. Voluta perché c'erano buone probabilità di incontrare la baronessina Michela, sorella del nostro compagno.
Alta, longilinea ma ben curvata, capelli biondi e occhi azzurro cupo, un sorriso da spaccare il cuore più duro, era li a dimostrare che i Normanni in Sicilia non erano stati con le mani in mano, e a noi faceva tremare le ginocchia. Era di due o tre anni più grande di noi, quindi assolutamente fuori portata, ma per nulla al mondo avremmo rinunciato alla possibilità di scambiare due parole e di ricevere un sorriso.
A questo si aggiunga che ero nelle grazie speciali della baronessa per una ragione tutta particolare.
Quando per la prima volta ero stato presentato a mammà, affascinato da quell'ambiente tutto speciale mi ero lasciato andare ad un gesto assolutamente inusuale: avevo preso la mano che la baronessa mi porgeva e l'avevo baciata in perfetto stile belle époque, con un leggero batter di tacchi per soprammercato. La cosa aveva estasiato la signora, insieme al mio parlare privo di accenti dialettali; per lungo tempo rimase convinta che fossi toscano.
Quando il figlio le spiegò le mie origini ferroviarie, in una insolita esplosione di democrazia lo rimbeccò dicendo che classe ed educazione non si misurano con i soldi e il mestiere del padre, come lui stesso stava a dimostrare.
Con la vecchia 1400 ereditata dal padre raggiungemmo la villa, a circa 40 Km. da Catania. Durante il viaggio avevamo deciso di seguire il consiglio paterno e di andare a caccia.
Tenete presente che nessuno di noi aveva una licenza di caccia o porto d'armi, non avevamo neanche l'età per averle, ma il problema non ci sfiorava minimamente; chi poteva dir qualcosa, dentro le terre del Barone?
Arrivati alla villa, accolti dal fattore imbarazzantemente ossequioso, ci venne aperta la vetrina blindata dell'artiglieria, scelte un paio di doppiette e a me, che non volevo cacciare, fu affidata una splendida carabina 22 con mirino telescopico con cui, secondo il fattore, avremmo potuto divertirci al tiro al bersaglio.
Imbarcato un robusto pranzo al sacco, ci avviammo per i campi. Era una tarda mattinata che sapeva di meraviglia; sole, vento tiepido e profumato e gli splendidi colori che solo chi è stato in Sicilia conosce.
Era tutto un cinguettio di uccellini, ma nessuno sparava un colpo, fedeli al diktat del fattore "ai cidduzzi nichi un si spara", agli uccellini non si spara.
Girammo inutilmente fino all'una, ci fermammo a mangiare e collaudammo su sassi, rami e un barattolo la spaventosa precisione della carabina austriaca.
Nel pomeriggio ci incarognimmo a cercare di fregare un gruppo di gazze che stavano facendo scempio di un uliveto; quelle figlie di buona donna si spostavano sempre con molta calma restando inesorabilmente fuori tiro. Ad un certo punto vedemmo spuntare un contadino che, zappone in spalla, passò tranquillamente sotto gli alberi dove si ingozzavano le gazze, che non si mossero di un millimetro. Pensando di essere furbi, ci mettemmo i fucili in spalla e ci avviammo verso di loro, pensando di fregarle.
Neanche a pensarci; poco prima che arrivassimo a tiro si levarono in volo portandosi a distanza di sicurezza e dimostrandoci platealmente che distinguevano benissimo la differenza fra un fucile e una zappa.
Verso le quattro percorrevamo stanchi la cresta che fiancheggiava un ripido canalone quando avvistammo un immenso bestione bianco che volava lungo il canalone, pressappoco alla nostra stessa altezza.
Batteva lentissima le grandi ali, evidentemente stanca da chissà quale chilometrico viaggio, diretta verso il non lontano lago di Pergusa, sotto Enna.
Non era bersaglio a portata delle doppiette, e i miei due amici mi incitarono ad usare la carabina. Non volevo sparare, ma gli incitamenti e l'eccitazione mi fecero inquadrare la bestia nel mirino. Regolato il fuoco telemetrico, la splendida oca selvatica mi apparve in tutta la sua bellezza, il lungo collo proteso e le ali lente che luccicavano sotto il sole.
Perché premetti il grilletto? Non lo so, non sono mai riuscito a spiegarmelo.
Il colpo partì, un debole rinculo, l'arma era pesante e il calibro piccolo, e tutto in una volta sentii il botto, il click dell'otturatore che si riarmava, un debole luccichio dorato all'estremità del campo visivo dell'altro occhio, il bossolo che volava di fianco, e…un ciuffetto di penne che volava via dal dorso dell'animale, che continuò senza scosse il suo volo superbo. Indispettito, frustrato, tirai ancora due o tre volte il grilletto. Altri ciuffi di penne volarono senza risultato.
A quel punto cominciavo a star male, sudore e lacrime mi annebbiavano la vista, la croce del mirino era sempre sull'oca, sparavo e piangevo, sparavo e pregavo che morisse, che quell'orrore finisse. Alla fine non ce la feci più, sparai l'ultimo colpo a casaccio e tolsi l'occhio dal mirino, giusto in tempo per vedere la bestia precipitare a piombo nel vallone.
Tano e Tana, i due bracchi del barone che erano stati con noi per tutta la giornata, si precipitarono a capofitto nel vallone, e noi li seguimmo, mezzo correndo e mezzo ruzzolando.
L'abbaiare concitato dei due cani ci guidò in una piccola radura, dove la povera oca giaceva su un fianco, una delle grandi ali ancora spalancata. Non c'era sangue, sembrava intatta, evidentemente i proiettili piccoli, la grande distanza e il folto strato di piume l'avevano protetta. Ma un colpo, l'ultimo maledetto colpo sparato a casaccio le aveva fracassato il cranio.
I miei amici erano senza parole, i cani silenziosi e assorti annusavano la preda; lasciai cadere la costosissima arma, mi appoggiai a un alberello e vomitai pranzo, colazione e lacrime.
Dopo un po' di tempo riprendemmo la via di casa, Lorenzo portava l'oca, Giacomo il suo fucile e il mio, Tana mi camminava al fianco e ogni tanto cercava di leccarmi una mano.
Arrivammo davanti alla villa, io stavo ancora malissimo, il fattore fu l'unico a congratularsi, ma sua moglie mi fece sedere all'ombra e mi portò un bicchiere di vino fortissimo.
Il fattore aveva capito le ragioni del mio malessere, e mi disprezzava un po'; guardandomi severo disse (vi risparmio il dialetto) che per uccidere, persone o animali, bisogna essere uomini. Ricordo ancora nell'orecchio il sussurro della moglie, mentre mi riempiva ancora il bicchiere: "cerca di non diventare mai uomo, figlio mio".
Poco tempo fa, parlando con un amico, gli ho detto che per parlare dell'inferno bisogna esserci stati.
Da questa esperienza è nata la convinzione che mi ha accompagnato per tutta la vita; pur essendo convinto che la vita sia fatta di toni di grigio, che il bianco e il nero non esistano, sono convinto che nessuno ha il diritto di spegnere una vita, umana o animale che sia.
La bistecca sul mio piatto è lì a smentirmi, me ne rendo conto, ma ho imparato ad autoassolvermi per questa debolezza che fa parte del vivere quotidiano; ma niente e nessuno potrà convincermi che è giusto sparare ad un animale se non per difendere direttamente la propria vita, così come non è giusto fare bombardamenti "buoni" su gente "cattiva".
Non viviamo in un mondo "in pace"; sarebbe già molto essere in pace con la propria coscienza.
Claudio Barbanera
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